A house with a large antenna

C’era una volta un tipo che aveva un’antenna enorme sul tetto di casa. La gente pensava che la usasse per parlare con radioamatori in tutto il mondo, ma non era così. La realtà era ben diversa.

Il tipo in questione si chiamava Alfredo e veniva da una famiglia agiata della zona che però era andata in disgrazia. Gli erano rimasti abbastanza soldi per non dover lavorare, ma non abbastanza per vivere bene. Faceva infatti una vita oziosa e riservata, sempre chiuso in casa a fare chissà cosa.

I vicini pensavano che fosse una spia Russa del KGB. Il verduriere all’angolo giurava di averlo visto insieme ad un noto politico di sinistra in un ristorante della zona. Insomma, nessuno sapeva nulla, se non per il fatto che fosse un radioamatore; fatto su cui erano tutti d’accordo.

E avevano torto. L’antenna di Alfredo serviva ad altro. Era infatti un apparecchio di grado militare costosissimo che lui aveva acquistato alla fine della guerra fredda e speso anni ad apprenderne il funzionamento.

Uno zingaro Rumeno gli aveva anche tradotto il manuale dal Russo, anche se la traduzione risultava spesso incomprensibile. “Inserire il fustacchio nella bobina magnetica fino allo srotolamento del pennacchio”. Immaginati un manuale dell’Ikea di 1538 pagine tradotto dal Russo da uno zingaro Rumeno …

Ma lui aveva perseverato ed alla fine ce l’aveva fatta. Finalmente funzionava tutto. Alfredo poteva sentire le conversazioni telefoniche di tutti gli abitanti del paese. E non solo questo. Vedeva anche tutti i messaggi e poteva intervenire nelle conversazioni. Poteva inviare messaggetti che parevano provenire da un utente in particolare.

Insomma, controllava completamente il flusso dell’informazione.

C’era però un problema di volume: troppe cose da ascoltare. Servivano dei filtri. Primo, eliminare tutte le conversazioni degli adolescenti. Cosa te ne frega di quello che dicono? Secondo, registrare solo le discussioni interessanti. Ma come definire ‘interessanti’?

Alfredo si affido ad un ‘hacker’ Islandese che creò un programma di riconoscimento vocale che ascoltasse tutto, ma registrasse solo le conversazioni contenenti alcune parole chiave, con opportune variazioni. Per esempio, lui inseriva ‘Mangiare’ ed il programma registrava tutte le conversazioni con ‘mangiato’, ‘mangiai’ etc…

Ci volle un po a perfezionare il sistema, ma alla fine tutto funzionava. Al termine della giornata gli arrivava un email con tutte le conversazioni e messaggi interessanti che poi lui si ascoltava in tutta calma. Alfredo era diventato onnisciente.

Ma cosa farsene di tutto questo ben di Dio? Sicuramente c’era una ragione. La provvidenza non gli aveva dato tutto questo potere per nulla. Non poteva sprecare questo dono ascoltando passivamente. Doveva agire; influenzare il corso degli eventi. Ma come farlo? E con quale intento?

Alfredo decise di cominciare con qualcosa di semplice: Pasquale. Pasqù, come era chiamato in paese, era un contadino grosso e rozzo. Aveva fatto solo la prima elementare e non aveva un vocabolario molto vasto. Si faceva bastare una una dozzina di parole, che utilizzava in varie situazioni, affidandosi all’intonazione e ai gesti per variarne il significato. In pratica, risultava incomprensibile.

Lo trovavi al bar del paese ogni venerdì sera a bere vino e straparlare, inanellando queste poche parole in configurazioni inverosimili.

Alfredo decise di accoppiarlo alla professoressa Milani, zitella di lunga data e esperta internazionale dei sonetti in rima alternata dell’Ariosto, di cui ne esistono tre, includendo l’enigmatico: “Io, come il falco, mi astengo”. Quest’ultimo era la causa della notorietà della professoressa che ne aveva proposto un’interpretazione audace. L’ipotesi Milani, come è chiamata, si può riassumere, seppure in maniera incompleta, con la costatazione: “Quando lo ha scritto, era ubriaco”.

Così arrivò il primo messaggio del finto Pasqù: “Oh mia dolce pulzella, mirarti riempe di ardore il mio cuore”.

La professoressa rispose: “Pasquale, mi sa che hai preso un virus”.

Pasqù: “Il mio unico malanno è l’affanno di non poterti avere”.

Milani: “Pasquale, ma cosa dici, hai bevuto?”

Pasqù: “Ti aspetto, ardente come sempre, presso il terzo tavolo dell’amorosa osteria”

Milani: “Amorosa osteria?? Ma intendi il bar Sport?”

Pasqù: “Il dolce luogo del nostro amor”

Milani: “Ma se fa schifo. È pieno di ubriachi!”

Pasqù: “Bacco sarà il nostro chaperone. Se anche tu mi desideri, pronuncia le parole in codice ‘sono la tua anguilla’”

Milani: “Ma che anguilla! Pasqù, ma sei impazzito?” Milani (dopo un po): “Su Pasqù, rispondi, ma ti sei arrabbiato?”

Pasqù arrivò al bar Sport come ogni venerdì sera. Si sedette al suo solito tavolo. Era in gran forma quella sera. Aveva scoperto un nuovo espletivo che ora usava, in forma aggettivale, attaccandolo ad ogni parola. L’aggettivo era ‘straficchioso’. Lo aveva usato un suo amico pastore per descrivere un gallo che si rifiutava di cantare all’ora stabilita. A Pasqù era parso un termine raffinatissimo.

L’ora si era fatta tarda. Le tenebre calavano sul bar Sport. Pasqù, ormai bello ubriaco, cominciava ad assopirsi con la testa sul tavolino. Una musica sdolcinata riempiva l’aria, coprendo le bestemmie del barista che voleva mandare tutti a casa. Il fumo delle sigarette avvolgeva i tavoli creando una nebbia primordiale stile Borneo.

In questo ambiente rarefatto da sogno tropicale arrivò lei. Bella come un confetto. Luccicante come la macchina quando esce dall’autolavaggio automatico. Uscì dalla nebbia come una star di Hollywood: occhialoni da sole, cappello all’Inglese e vestito attillatissimo.

Uno degli avventori, più coraggioso, accennò un fischio di apprezzamento. La prof lo fulminò con lo sguardo in modo tale che l’aria gli rientrò nei polmoni, come se l’avesse rimangiata. Il suono che ne uscì sembrava più un sospiro che un fischio. “Lo scusi professoressa, è un imbecille” disse il barista premuroso.

La Milani si avviò con passo deciso verso il tavolo di Pasquale che, nel suo stato stupefatto, non si era accorto di nulla. Fissandolo intensamente, gli sussurrò, in tono cospiratorio: “Sono la tua anguilla”.

“Non ho capito” rispose Pasqù innocente.

“Sono la tua anguilla” reiterò lei in tono perentorio.

“Ah si?”

“Pasquale, non dire cazzate per favore. Se dico che sono la tua anguilla, vuol dire che lo sono!”

“Se lo dice lei… Cioè tu … o lei … forse.”

“Non ti sarai mica raffreddato verso di me, vero?” ribadì lei stizzita.

“No… No… raffreddato? Io ho sempre caldo… ma in che senso?” rispose lui, ormai nella confusione più totale.

Visto che la situazione non progrediva, la prof cominciò a perdere la pazienza: “Pasqù, per piacere, non fare lo spiritoso. Andiamo via di qui”.

“E dove andiamo?” domandò lui.

“Certo non nella tua cascina, che c’è puzza di capra. Andiamo a casa mia”.

Pasquale, ridendo come un cretino, buttò li una frase a caso composta dalle poche parole a lui conosciute: “Casa è dove la capra dorme”.

La prof spalancò gli occhi, come folgorata: “Pasqù, ma è tuo questo verso?”

“Quale verso?” rispose lui, temendo di avere scorreggiato.

“Ma allora non lo sai neanche di essere un poeta!”

“No” rispose lui sincero.

“Hai qualche altro verso per me?”

Pasqù timidamente improvvisò: “La capra è dove il gallo dorme”.

La prof lo guardò dubbiosa: “Questa è una minchiata, però”

“Scherzavo” buttò li lui, intuendo di avere fallito qualche tipo di test.

“Va beh, andiamo a casa dai. Non si può pretendere troppo da colui che è ignaro dei propri doni”.

“Eh si …” rispose lui incerto.

Alfredo, osservando la scena da uno sgabello all’angolo della sala, sorrideva compiaciuto. Il suo piano stava funzionando.